è il racconto vincitore del concorso Libertà 2° edizione 2024.
Facciamo i complimenti all’autore, Claudio Soldaini, che si aggiudica il premio di 50€ in buoni per acquistare libri. La vittoria è stata decretata per le seguenti motivazioni:
Scrittura ricca, con ottime immagini evocative e belle metafore. Ben tratteggiato il protagonista, che si impara a conoscere e a cui ci si affeziona in poche righe. C’è un’atmosfera quasi onirica, dalle atmosfere sospese, che si compenetra, non è chiaro in che misura e in che preciso momento, con la dimensione dell’aldilà. Pur non delineandosi eventi eclatanti nello svolgimento, sembra che accadano invece molte cose, e il ritmo è cadenzato fino alla conclusione. Il finale è commovente, ma risulta un po’ desaturato rispetto alla carica espressiva del resto del racconto. Forse un po’ troppo pacificatoria, seppur confortante, la visione dell’aldilà come luogo di ritrovata felicità.
Trovate il video della premiazione a questo indirizzo.
Qui potete invece consultare il bando del concorso.
Dopo la Notte
Era novembre quando presi il treno della notte. Andai alla stazione a piedi, non faceva freddo, credo che fosse quella che nella tradizione popolare è chiamata l’estate di San Martino: una piacevole parentesi di tepore tra l’autunno e l’inverno.
Mi trascinai dietro un grosso trolley le cui ruote gommate non producevano alcun rumore sull’asfalto grigio delle strade che, a quell’ora tarda, erano deserte. Senza il traffico, la folla, e la confusione consueta del giorno mi parvero essere diverse, quasi irriconoscibili, strade di altre città. Le luci dei lampioni, a nere trame, ondeggiavano sui muri dei palazzi, come acque placide di un fiume prossimo alla foce, e le finestre chiuse sembrava che fossero tessere giganti allineate sulle loro facciate.
Non avevo fretta, potevo godermi quella passeggiata notturna con assoluta calma, a passo lento, evitando di affannarmi per giungere alla stazione. La valigia era pesante, piena di tante cose, e può darsi che avessi esagerato. Neanche ricordavo bene cosa diamine ci fosse dentro. L’avevo preparata giorni addietro per non scordarmi niente, e finita di riempire la sera stessa della partenza.
Era il viaggio che avevo aspettato da sempre, e spesso pensato, talvolta temuto per l’impegno che richiedeva, e allo stesso tempo agognato. Uno di quei viaggi che si dice valgono una vita.
Cammin facendo, incontrai un gatto. Un randagio con gli occhi sfavillanti nella penombra. Appena mi vide si bloccò. Rimase immobile a fissarmi con la coda dritta a perpendicolo fintanto che gli fui passato davanti. Miagolò sommessamente, aveva un tono dolente, e pensai che volesse salutarmi. Forse riteneva che fossi simile a lui, un randagio nella notte. S’infilò sotto un’auto parcheggiata e da lì non si mosse più. Ero una preda troppo grossa per le sue zampe, e comunque topi che uscivano dalle fogne non mancavano in giro per le strade. Scappavano e si nascondevano prima che riuscissi a vederli, tuttavia sapevo che c’erano, ne percepivo la furtiva presenza, al pari degli echi lontani e delle voci indistinguibili di mondi immaginari, e non per questo meno veri, che aleggiavano nell’aria bruma.
Mi sentivo bene, in perfetta forma, come non mi accadeva da molto tempo. Pensieri negativi in testa non ne avevo, e se qualcuno me l’avesse chiesto gli avrei detto di provare un senso di quiete dovuto probabilmente dall’imminenza del viaggio che mi apprestavo a compiere. Ritenevo che fosse più bello partire nottetempo, iniziare un viaggio avvincente che mi avrebbe condotto lontano. Ero certo di provare sensazioni indimenticabili che mi avrebbero accompagnato dovunque fossi andato.
All’improvviso ricordai quello che feci con Carla tanti anni prima. Eravamo giovani e da poco fidanzati. Andammo in montagna per la prima volta insieme agli amici. Salimmo sul treno ridendo spensierati. L’alba non era ancora sorta.
Conservavo una foto di quel giorno nel portafoglio ed ebbi voglia di vederla. Mi ripromisi di farlo una volta giunto alla stazione che oramai era vicina. Svoltai un angolo, percorsi un viale alberato sul marciapiede del quale le foglie cadute frusciavano e scricchiolavano sotto le mie scarpe e le rotelle del trolley. Quest’ultimo mi parve essere diventato ancora più pesante o forse ero io ad essere stanco. Se ci fosse stata mia figlia senz’altro mi avrebbe rimproverato. Papà cosa ti salta in mente, alla tua età, andare alla stazione di notte a piedi, avrebbe detto… Perché non farti accompagnare? O magari potevi prendere un taxi… E invece no! Non avevo detto e chiesto niente a nessuno, mi ero messo in tasca il biglietto e, tirandomi appresso la valigia, ero uscito di casa a notte fonda, come se fosse stata la cosa più naturale al mondo.
Arrivai alla stazione che avevo il respiro pesante. Subito mi preoccupai di obliterare il biglietto prima che lo dimenticassi.
Sotto la pensilina ad aspettare il treno c’erano altre persone. Ne contai cinque. E pensare che avrei scommesso che a quell’ora non ci fosse stato nessuno o quasi, e invece… Erano tutte ben coperte, indossavano pesanti cappotti dal bavero alzato che ne celavano i lineamenti del viso. E avevano al collo sciarpe, e berretti di lana, e qualcuno i guanti. Anche loro avevano delle voluminose valigie simile alla mia. Chissà se andavano in montagna, pensai. Tutto sommato non mi dispiacque la loro presenza, mi fecero sentire meno solo. E, del resto, problemi di posto non ce ne sarebbero stati. Infatti, il treno che arrivò da lì a poco era lunghissimo, non si riusciva a scorgerne la fine. Le ultime carrozze si perdevano nel buio.
Mi sistemai vicino al finestrino. I sedili erano comodi, imbottiti a dovere. Era un ambiente asettico, molto confortevole, in cui sentirsi protetti. Appoggiai la valigia sul sedile di fronte e tirai fuori dal portafoglio le foto che vi tenevo. Quella della mia povera moglie Carla, di mia figlia da bambina, del viaggio in montagna con quei cari amici che purtroppo non c’erano più. Le passai in rassegna una ad una, osservando i volti sbiaditi che vi erano ritratti, ricordando le risate, i sogni, le speranze e i problemi di quei tempi perduti. Nel frattempo il treno partì e il viaggio cominciò.
Le luci si affievolirono; c’era silenzio; oltre a me non c’era nessun’altro nel vagone. Gli altri viaggiatori si erano dispersi lungo il convoglio, ciascuno in cerca di una sua intimità.
Vidi la stazione sfilare dal finestrino; le colonne di marmo delle tettoie dileguarsi in rapida successione; i sottopassaggi sfuggire in un attimo; gli intrighi delle rotaie nei piazzali svanire. Poi fuori il buio pesto, di concerto col rumore monotono del treno, m’indusse a socchiudere gli occhi, a dormire, a sognare. Avevo rimesso il portafoglio nella tasca interna della giacca e ora lo sentivo premere sul petto, all’altezza del cuore.
Non ero più protagonista della mia vita, oramai ero ridotto da essere un semplice spettatore di ciò che ne restava. Fu una considerazione amara che, non so perché, mi fece sorridere. Era la verità, era lo stato dei miei giorni, e riflettendo su questo finii per assopirmi.
Sognai i cavalli. Una grande mandria di cavalli bianchi che correvano per praterie sconfinate.
Un suono stridente di ferraglia interruppe il sogno. Fui colto da un soprassalto e spalancai gli occhi: la notte aveva lasciato il posto al giorno la cui luce opalescente pareva una specie di benedizione del cielo.
Il treno era fermo in una stazione al limitare di una campagna movimentata in lontananza da colline verdeggianti. Dovevo sbrigarmi a scendere altrimenti avrei perso la coincidenza. Agguantai la maniglia della valigia e fui stupito quanto ora fosse leggera, come se non contenesse più niente. Cos’era successo mentre dormivo, mi chiesi. Però non c’era tempo per controllare, e mi affrettai verso l’uscita della carrozza la cui porta trovai spalancata. Scesi sulla banchina, guardando tutt’intorno, non mi raccapezzai dove fossi. Non c’era un’anima viva in giro, e alcun cartello che indicasse il nome della località. Mi venne il dubbio di aver sbagliato fermata. Quand’ecco che scorsi un gruppo di persone distante che mi venivano incontro a passo svelto. Facevano dei segni di saluto, e io non fui sicuro che quei gesti fossero rivolti a me. Chissà se mi avevano scambiato per qualcun altro, pensai. Continuarono ad avvicinarsi e a sbracciare per farsi notare. Non compresi ciò che dicevano. Le loro voci si accavallavano. Mi sforzai di afferrarne le parole ma era un vocio alquanto confuso che accrebbe la mia perplessità.
Ad un tratto, una persona del gruppo gridò il mio nome. Era stata la voce di un uomo e aveva un timbro stranamente familiare. Rimasi impietrito, avrei voluto muovermi ma non ci riuscii, paralizzato da quella visione. Non poteva essere, dissi a me stesso. Non potevo crederci, non era vero. Aguzzai la vista finché distinsi i loro visi.
«Carla!» gridai con la voce tremante. Abbandonai la valigia e le corsi incontro.
Accanto a Carla c’erano tutti: i miei genitori, i miei amici, persino i miei vecchi nonni. Tutte le persone che avevo amato e che nel corso della vita avevo perso.
«Finalmente possiamo di nuovo abbracciarci.» dissero. Avevano le lacrime agli occhi e li guardai uno ad uno.
«Questo significa che…» mormorai.
«Sì.» disse Carla stringendomi le mani.
Aveva un aspetto giovane, tale e quale al giorno che l’avevo conosciuta. E mi sorrideva come sorrideva lei.
«Ho aspettato a lungo che arrivasse questo treno.» disse.
La strinsi forte a me. Nella valigia capii allora di aver messo il peso dei miei anni, l’intera mia vita, e adesso ne sarebbe iniziata un’altra, contemplata in una dimensione diversa, ultraterrena, dopo la notte.